gpdimonderose - epistemik
   
  ontology
  Home
  Guestbook
  => epistemik
  ontology art
  ontopology 954
  ontopology
  g8
  ontosofiax
  Gallery
 fenomenologia?
È facile scorgere nell’impostazione fenomenologica un chiaro esempio di antiriduzionismo
e, più in generale, di anti-naturalismo.
A dire il vero, in tempi recenti, ci sono stati alcuni tentativi significativi di naturalizzare la
fenomenologia e di sostenere la piena compatibilità fra metodo fenomenologico e scienze
cognitive e, più in generale, la piena compatibilità fra i concetti fondamentali della
fenomenologia (vissuto, coscienza, intenzionalità, e così via) e i concetti fondamentali
delle scienze naturali1.
I tentativi di naturalizzare la fenomenologia si basano solitamente sulla convinzione che la
maggior parte degli argomenti apportati da Husserl per rifiutare l’integrazione fra
fenomenologia e scienze naturali possano essere di fatto superati alla luce dei significativi
progressi recentemente conseguiti dalle scienze naturali, sia in ambito matematico e
geometrico (la geometria differenziale e la topologia permettono di render conto del
carattere vago, inesatto, non ideale e non deduttivo che caratterizza le entità
fenomenologiche), sia in ambito fisico (la teoria delle catastrofi e la teoria dei sistemi
dinamici non lineari configurano i primi stadi di una scienza capace di spiegare in termini
fisici l’emergenza del livello qualitativo e morfologico di cui tratta la fenomenologia).
Dire questo significa sostenere che la nota tesi husserliana della non matematizzazione
diretta dei plena è in sé plausibile solo perché la matematica a cui Husserl faceva
riferimento non è sufficientemente duttile e sofisticata; in breve, non è sufficientemente
aggiornata.
In realtà, l’intento di naturalizzare la fenomenologia mediante un ampliamento
della entità naturalizzante (la scienza naturale e i suoi strumenti), benché del tutto
rispettabile e interessante, deve essere fortemente ridimensionato.2 Tale intento non
coinvolge, infatti, l’impianto centrale della fenomenologia, che è di tipo specificamente e
1 Si veda, ad esempio, J.Petitot, J. Varela, J. Pachoud e J.M. Roy (a cura di), Naturalizing phenomenology.
Issues in contemporary phenomenology and cognitive science, Stanford, Stanford University Press, 1999.
2 Su questo punto concordo con il parere che Emiliano Trizio esprime in Fenomenologia e scienze cognitiva.
Osservazioni sul progetto di naturalizzazione della fenomenologia, in La mente e il corpo tra scienza e
filosofia, a cura di M.Giannasi e F.Masi, Milano, Mimesis, 2008, pp. 421-444.
2
irriducibilmente trascendentale. Com’è noto, l’approdo di Husserl al riconoscimento
dell’esistenza di un io trascendentale, residuo assoluto della riduzione fenomenologica, è
netto e definito. La coscienza pura o trascendentale, che non si identifica con il mero flusso
o la mera compagine di vissuti di coscienza, costituisce a tutti gli effetti una regione
d’essere non reale, ontologicamente prioritaria, indubitabile, non dipendente, non relativa.
Il che è come riconoscere il carattere essenzialmente non naturale della coscienza stessa.
La coscienza naturalisticamente intesa, l’io uomo (o io donna), la coscienza empirica che si
manifesta cioè come indissolubilmente legata ad un corpo e alla realtà mondana e
naturale, altro non è, per la fenomenologia, che una particolare apprensione della
coscienza trascendentale, la quale intende i propri vissuti come connessi a una realtà
psicologica determinata. I vissuti psicologici, e la soggettività in senso naturale, altro non
sono, insomma, che un capitolo della costituzione dell’ego trascendentale.
Questa soluzione, drasticamente anti-naturalistica, è bene espressa dalle parole di Merleau
Ponty, il quale rintraccia nella fenomenologia il chiaro riconoscimento della insindacabile
primarietà e originarietà delle operazioni soggettive rispetto a qualsiasi forma di
oggettualità o datità scientifica:
Io non sono il risultato o la convergenza delle molteplici causalità che determinano il mio corpo o il
mio “psichismo”, non posso pensarmi come una parte del mondo, come il semplice oggetto della
biologia, della psicologia e della sociologia, né chiudere su di me l’universo della scienza. Tutto ciò
che so del mondo, anche tramite la scienza, lo so a partire da una veduta mia o da una esperienza
del mondo senza la quale i simboli della scienza non significherebbero nulla. Tutto l’universo della
scienza è costruito sul mondo vissuto e se vogliamo pensare la scienza con rigore, valutarne
esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di
cui essa è l’espressione seconda.3
La coscienza naturale e anche scientifica, in quanto determinazione del mondo percepito,
è, quindi, prodotto secondario, conseguente, derivato. Io sono, in primo luogo, coscienza
non naturale.
Io sono la fonte assoluta, la mia esistenza non viene dai miei antecedenti, dal mio ambiente fisico e
sociale, ma va verso di essi e li sostiene, giacché sono io che faccio essere per me (e dunque essere
nel solo senso che la parola possa avere per me) questa tradizione che scelgo di riprendere o questo
orizzonte la cui distanza da me – non appartenendogli come proprietà – si eclisserebbe se io non
fossi lì a percorrerla con lo sguardo. Le vedute scientifiche per le quali io sono un momento del
mondo, sono sempre ingenue e ipocrite, perché sottintendono, senza menzionarla, l’altra veduta –
quella della coscienza – per la quale originariamente un mondo si dispone attorno a me e comincia
ad esistere per me. Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla
conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione
3 M.Ponty, Phénoménologie de la perception, Librairie Gallimard, Paris, 1945; trad. it. Fenomenologia della
percezione, Milano, Bompiani, 2003, pp.16- 17.
3
scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui
originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume.4
Il modo in cui la coscienza si presenta a noi nell’atteggiamento naturale, cioè in
quell’atteggiamento immediato che è alla base tanto del senso comune (o “immagine
manifesta) quanto dell’attività di ricerca scientifica (o “immagine scientifica”), è quindi
frutto dell’attività di costituzione della coscienza trascendentale.
Se prendiamo sul serio questo risultato, ritenuto da Husserl un dato fenomenologicamente
imprescindibile, la strada della naturalizzazione della fenomenologia, intesa come scienza
della coscienza trascendentale, sembra essere definitivamente sbarrata, configurandosi
addirittura come una sorta di contro-senso.
Si tratta ora di vedere se e fino a che punto non solo il progetto di anti-naturalizzazione
ma anche il progetto di anti-naturalità della fenomenologia possa essere conseguito con
successo proprio in vista dell’intento metodologico e epistemologico che tale disciplina si
propone. A tal fine, dovremo prima cercare di chiarire e sostenere la legittimità della
distinzione fra naturalizzazione e naturalità.
2. Naturalizzazione vs naturalità
I vari modi di intendere la naturalizzazione (naturalizzazione ontologica, cioè di enti
o fenomeni; naturalizzazione epistemologica, cioè di discipline o teorie; naturalizzazione
metodologica, cioè di metodo o analisi), sottintendono un atteggiamento di conversione o
riconduzione di qualcosa a qualcos’altro.
Conversione che, a prescindere dal valore (positivo o negativo) che le viene attribuito,
esprime comunque l’intento di ridurre elementi (ontologici, epistemologici, metodologici)
non naturalizzati a elementi naturalizzati (entità scientifiche, teorie scientifiche, metodi
scientifici). Questa conversione permette di salvaguardare quell’ideale di continuità che
anima qualsiasi progetto di naturalizzazione: continuità negli enti; continuità nelle teorie,
continuità nei metodi utilizzati.
Continuità non significa necessariamente riduzione. Una naturalizzazione non
riduzionistica è, com’è noto, del tutto possibile.5
La naturalizzazione è quindi, in realtà, un processo differenziato: si potrà parlare di
naturalizzazione nel senso del riduzionismo fisicalista, ma anche di naturalizzazione nel
4 Ibid. p. 17.
5 È questa, ad esempio, la posizione sostenuta da Mario De Caro in M. De Caro e D. Macarthur, Naturalism in
question, Harvard University Press, 2004; trad. it. La mente e la natura, Fazi, 2005.
4
senso meno stringente di naturalizzazione alle scienze cosiddette non dure, come le scienze
umane.
D’altro canto, la coerenza rispetto alla fattualità della dimensione scientifica è, quando si
cerca di naturalizzare qualcosa, un dato da cui difficilmente è possibile prescindere. Il che è
un altro modo per dire che, nello scontro fra immagine scientifica e immagine manifesta, è
la cornice concettuale fornita dall’immagine scientifica ad ottenere il primato, così come
sono le entità postulate all’interno di quella cornice a poter essere considerate gli unici
costituenti della realtà effettiva.
La nozione filosofica di naturalità si distingue dalla nozione di naturalizzazione in
quanto, piuttosto che ricondurre elementi innaturali a elementi naturalistici, rileva la
necessità di un’ immersione nel contesto complessivo della natura anche degli elementi a
prima vista ritenuti più innaturali. Ciò risulta inoltre necessario proprio al fine di offrire
una piena descrizione fenomenologica di quegli stessi elementi.
Se è vero, quindi, che la fenomenologia non è naturalizzabile se non, in pratica, a
costo di una sua eliminazione, è anche vero che la fenomenologia, per potersi interamente
dispiegare, deve reintrodurre in qualche misura l’atteggiamento naturale. Naturalizzazione
(scientifica) e atteggiamento naturale (ingenuo) sono infatti, contrariamente a quanto
sostenuto da Husserl, atteggiamenti diversificati e addirittura, per alcuni aspetti, in
reciproca collisione. Se la naturalizzazione della fenomenologia, infatti, fa cadere la
fenomenologia in un evidente controsenso, l’atteggiamento naturale può diventare – come
vedremo - elemento necessario per l’istituirsi stesso della fenomenologia.
Sospendere, neutralizzare, ridurre l’atteggiamento naturale significa quindi, in realtà, due
cose: da un lato distinguere rigorosamente la descrizione fenomenologica della coscienza
trascendentale da qualsiasi analisi di tipo scientifico-oggettuale (non naturalizzazione della
coscienza); dall’altro concepire la coscienza trascendentale come dimensione
integralmente, cioè senza residui, innaturale (non naturalità della coscienza).
Quello che tenterò di mostrare è che solo la prima strada, e non la seconda, risulta
davvero conforme al metodo fenomenologico. Se la sospensione dell’atteggiamento
naturale, inteso come atteggiamento scientifico-naturale, conduce all’individuazione di
quel terreno senza il quale la fenomenologia non può dispiegarsi, cioè il terreno delle
operazioni costitutive della soggettività; la sospensione dell’atteggiamento naturale inteso
come descrizione della coscienza nella sua naturalità, rischia di perdere di vista e lasciarsi
sfuggire quello stesso terreno faticosamente avvistato dalla fenomenologia. Vedremo
infatti come il risultato della conversione della coscienza naturale nella innaturalità dell’io
5
puro prosciughi la pienezza della coscienza fino a renderla coscienza disincarnata,
meramente strutturale, funzionale, immateriale.
Potremmo anche dire che la coscienza innaturale sta a quella naturale come una
mappa o una cartina sta al territorio nel quale siamo immersi; o, come afferma Merleau
Ponty, come «la geografia sta nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo
imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume»: la prima è un’entità astratta,
artificiale; la seconda un’entità effettiva, naturale.
Per mostrare questa differenza, occorrerà ora guardare più da vicino la morfologia del
territorio individuato dalla fenomenologia (e prima ancora da Descartes): la dimensione
della coscienza assoluta e trascendentale. Utilizzando però, oltre che strumenti
fenomenologici, anche strumenti e argomenti mutuati dalla recente filosofia della mente.
3. La filosofia della mente e il problema degli stati qualitativi
L’idea dell’innaturalità della dimensione soggettiva è, per Husserl, una chiara eredità
cartesiana. Per Descartes, la res cogitans costituisce una dimensione ontologicamente e
epistemologicamente del tutto estranea alla dimensione della cosa materiale, sia essa
sensibile o non sensibile. Il naturalismo, inteso come possibile assimilazione dell’ego
cogito alla sfera della materialità, è un controsenso: la cosa materiale sottintende, infatti,
sempre e comunque, l’esistenza prioritaria e indubitabile del cogito.
Per Husserl, in modo del tutto analogo, la coscienza trascendentale (noetica) è una
regione d’essere non-reale o irreale, assoluta, prioritaria e imprescindibile, eideticamente
distinta dall’ambito relativo e derivato della oggettualità (noematico).
La dimensione coscienziale, noetica, quindi, sostiene e legittima qualsiasi ambito
oggettuale, compreso quello della soggettività empirica e dei suoi vissuti psicologici.
Ma, ci potremmo chiedere, la vita di coscienza nella sua pienezza e interezza, quella vita
tenacemente perseguita sia da Descartes sia da Husserl, è davvero riducibile a pura
innaturalità? Oppure, viceversa, per render conto della vita di coscienza in tutto il suo
dispiegarsi, risulta necessario reintrodurre un elemento di naturalità?
Al fine di mostrare come, contrariamente a quanto sostenuto da Descartes e da
Husserl, è la seconda soluzione a configurarsi come la più plausibile, prendiamo le mosse
da alcune affermazioni molto note in filosofia della mente e che riguardano da vicino il
fenomeno coscienza.
L’esperienza cosciente è a un tempo la più familiare e la più misteriosa tra le cose al
mondo.
6
(…)
La coscienza può essere sorprendentemente intensa; è il fenomeno per noi più vivido e
reale, ma d’altra parte può essere sfuggente in modo frustrante.
(…)
È la coscienza fenomenica a rendere tormentoso il problema della coscienza.
(…)
Ma il problema realmente difficile è quello della coscienza fenomenica, ed esso non è
toccato dalle spiegazioni della coscienza psicologica che sono state finora avanzate.6
Mistero, ostacolo, problema, sono termini che ricorrono costantemente
nella letteratura di filosofia della mente. Per coscienza i filosofi della mente
intendono, com’è noto, l’esperienza cosciente, o, meglio, la qualità soggettiva di
tale esperienza. La nozione di coscienza si concreta e dispiega infatti nelle sue
qualità fenomeniche, o qualia.
Molti filosofi della mente fanno un’importante distinzione fra il concetto
fenomenico di mente (la mente in quanto esperienza cosciente) e il concetto
cognitivo di mente (la mente in quanto base causale e esplicativa del
comportamento). Per lo stato mentale inteso in questo secondo senso, il fatto di
possedere una qualità cosciente è di scarsa importanza, certo un’importanza molto
minore rispetto al ruolo che quello stato ricopre nell’economia cognitiva
(apprendimento, memoria, credenza).
La distinzione fra mente e coscienza offre al contempo una formulazione più
articolata e una maggiore specificazione del problema mente-corpo. Il problema
mente-corpo può essere infatti, alla luce di questa distinzione, analiticamente
suddiviso in tre sotto-sezioni. Se interpretato come problema mente cognitivacorpo,
il problema mente-corpo è, a detta di molti, un rompicapo più che un
autentico problema. L’analisi funzionale della mente, infatti, pur rivestendo
notevole interesse filosofico, presenta difficoltà di natura più tecnica che
metafisica.
Ben altra cosa è il problema mente–corpo inteso come problema mente
fenomenica-corpo, il quale, lungi dall’essere mero rompicapo, assume le statura di
un vero e proprio problema paradigmatico.7 Così come fondamentale è il terzo
6 D.Chalmers, The Conscious Mind, Oxford, Oxford University Press 1996; trad it. La mente cosciente,
Milano, Dynamie 1999, pp.3, 29 e 31.
7 Uso i termini “rompicapo” e “problema” nel senso kuhniano secondo il quale alcuni problemi hanno la forza
di mettere in crisi una tradizione paradigmatica antecedente e di scardinare i dogmi che ne costituiscono
l’intelaiatura concettuale. Si veda, in particolare, T. Kuhn, The function of dogma in scientific research, in
A.C.Crombie, Scientific change, Historical studies in the intellectual, social and technical conditions for
scientific discovery and technical invention, from antiquity to the present, London, Heinemman Educational
7
corno del problema, cioè il problema mente fenomenica-mente cognitiva.
Quest’ultimo può essere definito problema mente-mente; il problema, cioè, di
come e perché le proprietà funzionali siano associate a proprietà fenomeniche o
esperenziali8.
Il problema della coscienza nasce, com’è noto, dalla sua apparente
irriducibilità a elementi che non sono, a loro volta, coscienziali. Irriducibilità che fa
balzare in primo piano, metodologicamente parlando, la spaccatura fra immagine
manifesta e immagine scientifica. Perché, se è vero che di per sé l’esperienza
cosciente è quanto di più familiare, prossimo, naturale vi sia, è anche vero che dal
punto di vista dell’immagine scientifica (o, meglio sarebbe dire, di una certa
immagine scientifica), essa diventa elemento recalcitrante, distante, ineffabile. In
un progetto di tipo riduzionistico, inteso sia in senso epistemico sia in senso
ontologico, l’elemento che “oppone resistenza” facendo così scaturire e rendendo
“tormentoso” il problema della coscienza, è il tratto soggettivo, qualitativo,
fenomenico degli stati mentali. Quello che Schlick definisce l’inesprimibile,
incomunicabile, inconoscibile contenuto della nostra esperienza.
Siccome l’avere esperienza ha a che fare con il contenuto, siamo destinati a incespicare
ogni qual volta proviamo a parlarne. Dicendo che “conosciamo” il contenuto per averne
esperienza o per intuizione trattiamo il contenuto come l’oggetto di un’attività, come
qualcosa che è “colto” nella “mente”, tracciato all’interno di essa, reso parte di essa, o,
peggio di tutto, da essa percepito. Si dà così l’impressione che la mente si procacci
“conoscenza” di contenuto appropriandosene in qualche modo. Ciò è estremamente
fuorviante. Il contenuto è il contenuto; ad esso non si può far niente, esso semplicemente
c’è (e ciò non può neppure essere “espresso”), ecco tutto. Posso percepire una foglia verde;
dico che la percepisco se (fra le altre cose) il contenuto “verde” c’è, ma sarebbe insensato
dire che percepisco questo contenuto
(…)
Per “conoscenza” intendiamo sempre un atto o piuttosto il risultato di un atto (di
comparazione, di ricognizione, di denominazione), ma il contenuto, semplicemente, è
presente, non è necessario alcun atto di intuizione, di averne esperienza, per portarlo
dinnanzi alla mente o dentro di essa: tutte queste frasi non sono che futili tentativi di
esprimere il suo semplice esserci: non dovremmo dire mai che il contenuto è “conosciuto”
o che potrebbe essere conosciuto. 9
Tre sono le distinzioni che fanno da cornice al carattere recalcitrante
dell’esperienza qualitativa: la prima è la distinzione fra forma e contenuto delle
Books, 1963, pp. 347-369; trad. it. La funzione del dogma nella ricerca scientific, in Dogma contro critica,
Milano, Raffaello Corina, pp. 3-4.
8 Si veda, a questo proposito, R. Jackendoff, Consciousness and the computational mind, MIT Press,
Cambridge Mass., 1987; trad. it. Coscienza e mente computazionale, Il Mulino, Bologna, 1990.
9 M. Schlick, Form and Content. An Introduction to Philosophical Thinking, in Gesammmelte Aufsätze 1926-
1936, Gerold, Vienna 1938; trad. it. Forma e contenuto, Milano, Boringhieri 1979, pp. 87-8.
8
nostre espressioni, associata alla asserita inconoscibilità del contenuto intuitivo,
importante per render conto dell’oggettività dell’immagine scientifica; la seconda è
la distinzione fra osservabile e inosservabile, unita al ricorso, ormai essenziale per
l’immagine scientifica, a entità impercettibili; la terza, infine, è la distinzione fra
quantitativo e qualitativo, unita all’esigenza, di nuovo determinante per
l’immagine scientifica, di ridurre la descrizione qualitativa (o secondaria) a
descrizione quantitativa (o primaria).
Guardiamo ora come e in che misura quanto è stato finora detto possa
riversarsi nella descrizione fenomenologica della coscienza e dell’articolazione dei
suoi vissuti.
4. Husserl e Descartes: il problema degli stati qualitativi
Per quanto possa apparire paradossale, se guardiamo le cose da un certo punto di
vista, anche per la fenomenologia di Husserl, e prima di lui per Descartes, gli stati
qualitativi costituiscono un problema.
Almeno due sono i luoghi teorici in cui la prospettiva teorica di Husserl si interseca
con il problema dei qualia così come esso si dispiega nella filosofia della mente: il
primo è la distinzione fra essenza intenzionale e hyle materiale; il secondo è il tema
del corpo vivo.
Prendiamo in considerazione il primo tema. L’estraibilità concettuale dell’essenza o
morphé intenzionale rende Husserl, da più punti di vista, un sostenitore di una versione
piuttosto netta di funzionalismo. L’essenza della coscienza (costituita dal binomio qualità e
materia d’atto) è quella struttura trasparente e strutturale che possiamo facilmente
identificare con l’intelaiatura intenzionale del vissuto e, più in generale, della coscienza. Da
questo punto di vista, l’elemento hyletico, passivo, materiale, contenutistico, fa da attrito e
al tempo stesso opacizza l’architettura formale e trasparente della noesi.
La distinzione analitica fra elemento formale (intenzionale) e elemento materiale
(hyletico) è presente anche nelle Meditazioni metafisiche di Descartes. Una volta posta la
domanda del che cosa è una cosa che pensa, Descartes risponde nel modo seguente:
So dunque che cosa sono: una cosa che pensa. Ma che cos’è una cosa che pensa? Di certo una cosa
che dubita, intende intellettivamente, afferma, nega, vuole, non vuole, e anche (quoque et)
immagina e sente. 10
10 R.Descartes, Meditazioni metafisiche, Bari, Laterza, 1997, p. 47.
9
Immaginazione e sensazione (le cogitationes di tipo qualitativo) risultano, in
Descartes, chiaramente distinte dalle cogitationes che potremmo definire puramente
intenzionali: intelletto, volontà e giudizio.
Così mi rendo conto chiaramente che per immaginare mi ci vuole una tensione psichica tutt’affatto
particolare, di cui non ho invece bisogno per intendere intellettualmente; ed è proprio questo di più,
costituito da tale tensione, a mostrare chiaramente la differenza fra l’immaginazione e l’intellezione
pura. Noto inoltre che, in quanto differisce dalla facoltà di intendere intellettualmente, questa
facoltà di immaginare, che pure è in me, non è tuttavia necessaria all’essenza di me stesso, vale a
dire della mia mente, chè, anche se non l’avessi, nondimeno rimarrei senza dubbio quello stesso che
sono ora; ed è di qui che sembra seguire che essa dipenda da qualche altra cosa diversa da me. 11
Sensibilità e immaginazione dipendono quindi, in misura essenziale, da qualcosa di
diverso da me, qualcosa di non essenziale. Questo qualcosa di più , che mi impone di
«stare attento a non scambiare per me, imprudentemente, qualcosa che sia invece diverso
da me»12, altro non è che la natura umana, più specificamente corporea.
La distinzione cartesiana fra essenza e natura umana porta alla constatazione della
dubitabilità non solo della cosa materiale sensibile ma anche di sensibilità e
immaginazione. Di quelle cogitationes, cioè, le quali, non essendo semplici funzioni
intellettive, passano attraverso una materialità sensoriale (quindi, in definitiva, attraverso
un corpo) per potersi attuare.
Anche nel caso di Cartesio, come nella filosofia della mente, il tradizionale problema
mente-corpo si articola quindi in tre questioni distinte: il problema mente-mente (mente
fenomenica o sensibile e mente cognitiva o intellettiva), il problema mente cognitiva-corpo
e il problema mente fenomenica-corpo.
La distinzione fra coscienza senziente e coscienza intellettiva (o problema mentemente)
configura inoltre, nella prospettiva cartesiana, una doppia soluzione. La prima
soluzione è il tentativo di assimilare la componente sensoriale e qualitativa alla
componente intenzionale. Questa soluzione si concreta, in Descartes, nella trasformazione
o conversione semantica del sentire nel pensare di sentire o, addirittura, nel sembrare di
sentire.
E, di tutto ciò, che cosa è distinto dal mio pensiero, o può mai essere detto separato da me? In
effetti è tanto manifesto che sono io a dubitare, ad intendere, a volere, che non c’è neanche modo di
trovare come renderlo ancora più chiaro attraverso una qualche spiegazione. Ma anche ad
immaginare sono io, perché – pur se si desse che, come ho supposto, niente affatto di quanto io
immagino sia vero – tuttavia in se stessa la capacità di immaginare è reale e fa parte del mio
11 Ibid, p. 121. Corsivo mio.
12 Ibid, p. 41.
10
pensiero. Infine, sono io a sentire, ossia a percepire delle cose corporee come se ciò accadesse
attraverso i sensi; al modo in cui ora, per esempio, vedo la luce, odo dei rumori, sento caldo. Ma
questo è falso – si dirà – perché ora, invece, io sto dormendo. Eppure di certo mi sembra di vedere,
udire, aver caldo; ed è questo che non può essere falso, ma è anche quel che in me vien chiamato,
propriamente, sentire, che preso così rigorosamente, non è poi altro che pensare. 13
Tale trasformazione ha il preciso scopo di operare una sorta di spogliazione o, se
vogliamo, di disincarnazione, non solo della cosa materiale, ma anche della soggettività
nella misura in cui essa risulta compromessa con la materialità sensoriale, con quelle idee
della sensibilità che, a detta dello stesso Cartesio, «mi si presentano senza chiedere il mio
consenso».14
La seconda soluzione, paradossalmente presente più in Descartes che nello stesso
Husserl, consiste nel progressivo accompagnamento dell’idea di una pura immanenza con
una nozione naturale, relazionale, corporea della coscienza e della soggettività. È la
nozione di interazione (e non di separazione) fra corpo e mente e, più in generale, fra
immanenza e trascendenza, a introdurre l’idea, fondamentale, di natura umana.
Un’idea che si forma sulla base del cruciale riconoscimento che «in me c’è una facoltà
passiva di sentire, ossia di ricevere e conoscere idee di cose sensibili (…) e tali idee si
producono in me senza che io vi collabori, ed anzi spesso anche contro la mia volontà».15
Ora, la natura, così intesa, nient’altro mi insegna tanto chiaramente quanto che ho un corpo che sta
male quando io sento dolore. Ha bisogno di cibo o bevande quando io soffro la fame o la sete, e così
via; e non devo quindi dubitare che in ciò ci sia qualcosa di vero. Poi, attraverso queste stesse
sensazioni di dolore, fame, sete, ecc., la natura mi insegna pure che io non sono meramente
presente al mio corpo come un nocchiero lo è al suo vascello, bensì gli sono congiunto quanto mai
strettamente e (per così dire) mescolato, in modo da comporre un’unità con esso. Altrimenti,
infatti, quando il mio corpo è ferito non ne risentirei dolore, io che non sono che una cosa che
pensa, ma percepirei tale ferita col puro intelletto, così come un nocchiero percepisce con la vista se
qualcosa si rompa nel suo vascello; e, quando il corpo ha bisogno di cibo o bevande, ciò io lo
intenderei intellettualmente in modo chiaro, senza avere sensazioni confuse di fame e di sete, ché
di sicuro queste sensazioni di sete, fame, dolore, ecc. non sono che modi confusi di pensare,
derivanti dall’unione e (per così dire) commistione della mente col corpo.16
La soggettività naturale, lungi dall’essere un timoniere, un occhio interiore in un
fantomatico teatro o un Dio nella macchina, è inestricabilmente connessa con la materia.
La commistione fra mente e corpo, inoltre, se da un lato opacizza la trasparenza essenziale
del cogito cartesiano, inquinandolo con elementi di trascendenza, dall’altro dona alla
coscienza quella pienezza e naturalità che andrebbe, altrimenti, inevitabilmente perduta.
13 Ibid, p. 47.
14 Ibid, p. 125.
15 Ibid, p. 131.
16 Ibid, p. 133.
11
Pienezza che solo la nozione di natura umana, unita a quella «inestricabile amalgama» che
ne costituisce il fondamento, restituisce di nuovo all’analisi filosofica.
La descrizione fenomenologica della coscienza si trova allo stesso bivio di quella
cartesiana. Da un lato, accentuando la distinzione fra qualità e materia (l’essenza
intenzionale) e dimensione sensoriale (la hyle materiale), apre la strada al configurarsi di
un problema mente-mente, cioè al problema del rapporto fra mente funzionale e mente
fenomenica. Quello stesso rapporto che, come abbiamo visto, la filosofia della mente
contemporanea legge come metafisicamente duro, addirittura insolubile.
La soluzione alternativa consiste nel rimarcare la rilevanza fondamentale e in un
certo senso l’autonomia della hyle materiale. Rilevanza che, a dire il vero, Husserl ha
sempre dichiarato, basti pensare alla centralità della nozioni di intuizione, riempimento
sensibile, sintesi passiva, e così via. D’altro canto, dichiarare la centralità della materialità
sensoriale non significa ancora elaborare una effettiva fenomenologia hyletica17.
Per quest’ultima è infatti necessario ridimensionare drasticamente, come ha ben visto
Merleau Ponty, lo strumento della riduzione fenomenologica, intesa come analisi
strutturale e in ultima analisi formale dei vissuti e della loro funzione costitutiva. Il che è
un altro modo per dichiarare la necessità di reintrodurre nella prospettiva fenomenologica
l’atteggiamento naturale, anche se non la naturalizzazione. E di rendere la descrizione della
coscienza molto più “umana” di quanto la teoria dell’intenzionalità e della riduzione
fenomenologica ci suggeriscano.
5. Natura umana e corpo vivo
Il secondo tema in cui la trattazione fenomenologica si interseca con la trattazione dei
qualia in filosofia della mente è la nozione di corpo vivo (Leib).
La nozione di corpo vivo introduce all’interno della fenomenologia la significativa
distinzione fra materia e estensione corporea. Per essere obiettivamente esperibile, la
coscienza deve risultare il fattore animante di un corpo vivo obiettivo, anche se non a priori
e necessariamente di un corpo vivo materiale. La dimensione psichica è quindi, per
Husserl, legalmente connessa con la corporeità e il risultato di questa connessione
necessaria e essenziale è il corpo inteso come coscienza vivente.
17 Si veda M.Henry, Phénomenologie materielle, Presses Universitaires de France, 1990; trad. it.
Fenomenologia materiale, Milano, Guerini, 2001.
12
La nozione di Leib estende la pura immanenza del «flusso senza inizio e senza fine
di vissuti»18 alla sua «diffusione» in un corpo rispetto al quale tale flusso risulta, come per
Descartes, inestricabilmente connesso. In Husserl, tuttavia, l’«unione» o «commistione»
fra mente e corpo che confluisce nella nozione di natura umana, presenta un’ articolazione
ulteriore.
Da un lato il risultato di tale unione è l’io uomo (o io donna), con i suoi stati psichici,
le sue caratteristiche personali, le sue disposizioni di carattere e così via. Nell’io uomo, o io
empirico, «l’unità dell’uomo abbraccia entrambe le componenti, non come realtà legate
l’una all’altra soltanto esteriormente, bensì come due realtà intimamente intrecciate e in
certo modo compenetrantesi».19 Dall’altro lato, il risultato di tale unione è non l’io
empirico, bensì il corpo vivo in generale, in cui fra estensione corporea e flusso di vissuti
vige una relazione di fondazione.20
Laddove, al di là della chiara impossibilità empirica, è legalmente possibile un flusso
di coscienza privo di materialità (ne è una riprova, secondo Husserl, la possibilità logica di
fantasmi, privi di materialità e tuttavia dotati di schema corporeo)21; è legalmente
impossibile un flusso di coscienza privo di uno schema corporeo. Il flusso psichico, per
essere oggettivabile, deve infatti ricoprire (o diffondersi in) un corpo proprio. Il legame
essenziale non è quindi, per Husserl, fra psichico e fisico, fra mente e corpo materiale,
bensì fra psichico e schema corporeo.
Dal punto di vista dell’esser dato, o dell’essere oggettivabile, lo strato psichico non
può essere scorporato, cioè non può essere separato dalla sua estensione corporea. Il che
non solo non esclude bensì conferma, per Husserl, l’idea di un io puro, immateriale e
incorporeo; colto adeguatamente attraverso una conversione riflessiva dello sguardo; io
puro che non si genera e non trapassa bensì «entra ed esce di scena»; io puro che «non
nasconde in sé segrete e interiori ricchezze, è assolutamente semplice, è assolutamente in
18 E.Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologische Philosophie, Nijhoff, Den Haag
1976; trad. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. II, Einaudi, Torino
2002, p. 96.
19 Ibid. p. 98.
20 Il legame essenziale che sussiste fra il flusso di vissuti e l’estensione corporea può essere letto, a mio
parere, come un caso di a priori materiale, del tutto analogo al legame essenziale che sussiste fra colore e
estensione. Si veda, a questo proposito E. Husserl, Terza ricerca logica (Logische Untersuchungen, Zweiter
Teil/1: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. Zweiter Teil/2: Elemente einer
Phänomenologische Aufklärung der Erkenntnis, Husserliana XIX/1-2, Nijhoff, Den Haag 1984 ; trad. it.
Ricerche logiche, 2 volumi, Il Saggiatore, Milano 1968).
21 «Uno spettro è caratterizzato dal fatto che il suo corpo vivo è un puro fantasma spaziale, privo di qualsiasi
proprietà materiale, di quelle qualità che, quando appaiono, vengono cancellate dalla coscienza, vengono
caratterizzate come irrealtà» (Ideen II, cit., p. 99).
13
luce».22 Io puro che non è coscienza vivente, coscienza senziente, corpo come «latore di
sensazioni localizzate»; ma, potremmo dire,«centro di funzioni», struttura intenzionale
adeguata e trasparente a sé stessa. Distinzione che riproduce fedelmente la distinzione
cartesiana fra cogitationes intellettive e cogitationes radicate nella sensazione.
Così, anche per Husserl, il problema mente corpo è in realtà un problema
composito, articolato, almeno a prima vista, in tre problemi distinti: a) il problema
(naturalistico) del rapporto fra coscienza e corpo materiale; b) il problema
(fenomenologico) del rapporto fra coscienza e corpo inteso come corpo vivo; c) il problema
(fenomenologico) del rapporto fra corpo vivo, o coscienza vivente, e io puro.
Con la differenza che, nel caso di Husserl, è la nozione di corpo a fare da ago della
bilancia fra dimensione fenomenica (o qualitativa) e dimensione cognitiva (o intenzionale)
del mentale. Il corpo vivo è, infatti, è a sua volta un’entità eterogenea. Da un lato, in quanto
svolge un ruolo essenzialmente cinestetico, il corpo è schema corporeo disincarnato, con
compiti essenzialmente funzionali e costitutivi: «ogni linea della cinestesi decorre in un
modo suo proprio, totalmente diverso da una serie di dati sensibili. Essa si svolge come un
decorso di cui posso liberamente disporre, che posso liberamente fermare e di nuovo
mettere in scena in quanto realizzazione originariamente soggettiva. In effetti, il sistema
dei movimenti corporei è peculiarmente caratterizzato per la coscienza come un sistema
soggettivamente libero. Io lo colgo nella coscienza dell’ “io posso”. Posso
involontariamente “lasciarmi andare” e volgere i miei occhi qua o là, ma in ogni momento
posso involontariamente imboccare questa o una qualsiasi linea di movimento».23
Dall’altro, in quanto esprime la sua natura senziente, esso è coscienza vivente, organismo
immerso nel mondo percettivo, essenzialmente passivo e recettivo.
Il problema mente-corpo in Husserl si articola quindi, a ben guardare, non in tre
bensì in quattro sotto-problemi: a) il problema del rapporto fra mente cognitiva (o
intenzionale) e corpo materiale; b) il problema del rapporto fra mente cognitiva (o
intenzionale) e corpo vivo inteso come schema corporeo; c) il problema del rapporto fra
mente cognitiva (o intenzionale) e corpo senziente qualitativamente connotato (la mente
fenomenica); d) infine il rapporto fra corpo senziente e corpo materiale. Questa nuova e
più complessa impostazione del problema nasce dal progressivo slittamento dell’analisi
dalla dimensione del mentale (nella sua doppia componente cognitiva e fenomenica;
22 Ibid, p.109.
23 E.Husserl, Analysen zur passiven Synthesis, Kluwer, Dordrecht, 1966; trad. it. Lezioni sulla sintesi passiva,
Milnao, Guerini, 1993, p 45.
14
intellettiva e sensibile) alla dimensione del corporeo (nella sua doppia componente
funzionale-cinestetica e contenutistico-qualitativa).
Anche per la fenomenologia, comunque, una volta prese le distanze
dall’impostazione naturalistica al problema della relazione fra coscienza empirica e corpo
materiale, sorge impellente il problema di chiarire da un lato la relazione fra corpo
materiale e corpo vivo (o coscienza vivente, incorporata) e, dall’altro, la relazione fra
quest’ultimo e lo schema corporeo (o corpo cinestetico). Il che significa individuare anche
all’interno della stessa fenomenologia, sia pure in una diversa configurazione, il problema
degli stati qualitativi.
Problema che, nel caso di Husserl come nel caso di Descartes, è una conseguenza
della separazione fra essenza della coscienza (la sua struttura intenzionale, funzionale) e
analisi intorno al contenuto materiale della coscienza stessa (la sua natura fenomenica,
sensibile, qualitativa).
6. Osservazioni conclusive
Queste le conclusioni alle quali ci conduce quanto finora detto. Il problema degli stati
qualitativi (o qualia) è presente non solo nella filosofia della mente contemporanea bensì
anche in quelle discipline solitamente considerate come esempi paradigmatici di antiriduzionismo:
il dualismo cartesiano e la prospettiva fenomenologica di Husserl.
Il problema scaturisce dal fatto che entrambi propongono una netta distinzione fra
essenza e natura coscienziale o, più in generale, essenza e natura della soggettività; fra
struttura intellettiva, intenzionale e contenuto recettivo, hyletico, materiale. Tale problema
risulta inoltre imprescindibilmente connesso al tema della corporeità e alla constatazione
della inestricabile connessione che sussiste fra corpo e coscienza. Necessaria, se vogliamo
render conto della coscienza nella sua pienezza e interezza; non solo cioè come coscienza
funzionale e intenzionale ma anche come coscienza qualitativa e sensibile. Per poter essere
qualitativamente connotata, la coscienza deve attraversare, per così dire, il corpo. Corpo
inteso come schema corporeo e funzionale ma anche, e soprattutto, come materia
corporea.
Un po’ come dire che, per poter avvistare il territorio fenomenologico della
coscienza (e non trovarsi fra le mani una semplice mappa di quel territorio), la coscienza
deve riconoscersi nella, e ricongiungersi alla, essenziale connessione al corpo materiale,
alla carne, come affermerà Merleau Ponty. Il che è però solo un altro modo per dire che si
15
può render conto in termini fenomenologici della coscienza solo se reintroduciamo nella
fenomenologia stessa l’atteggiamento naturale.
 
Today, there have been 9 visitors (10 hits) on this page!
This website was created for free with Own-Free-Website.com. Would you also like to have your own website?
Sign up for free